LEPIDA ET SILENTES. Poesia e natura nelle incisioni e nei libri d’arte di Livio Ceschin

da | Mag 12, 2021

mostra prorogata sino a domenica 24 settembre

Si apre sabato 1 luglio la mostra che Casa Moretti propone al pubblico per l’estate 2017. Grafica e poesia sono ancora una volta i temi, cari all’istituto di Cesenatico, che dominano la proposta dell’allestimento a cura di Livio Ceschin, uno degli artisti incisori più valenti in Italia.

La mostra prevede la presentazione di circa trenta opere, tra acqueforti e puntesecche, che spazieranno dai primi studi realizzati nei primi anni ‘90, fino alle più recenti opere del 2016. Il filo che accomuna tutto il percorso dell’artista veneto è la natura: è in essa che affondano le sue radici ed emergono le sue ispirazioni. Il lavoro di Ceschin verrà illustrato anche attraverso le edizioni d’arte realizzate in collaborazione con i poeti e scrittori Andrea Zanzotto, Luciano Cecchinel, Mario Luzi, Franco Loi, Pierluigi Cappello, Gianmario Villalta, Mario Rigoni Stern e altri. Accompagneranno questi materiali una serie di altri documenti a corredo come un disegno realizzato per il poeta Andrea Zanzotto nel 2006, e alcune lettere originali di Federico Zeri, Ernst Gombrich e un testo di Mario Rigoni Stern.
Nel percorso, un video sul modus operandi dell’incisione, mostrerà il procedimento dai primi bozzetti dal vero alla stampa finale di un’incisione, accanto agli strumenti del mestiere.

BIO
Livio Ceschin, nato nel 1962 a Pieve di Soligo (Treviso), completa la sua formazione artistica presso l’Istituto d’Arte di Venezia e l’Accademia Raffaello di Urbino. Nel 1991, realizza le sue prime opere utilizzando la tecnica dell’incisione, specializzandosi soprattutto sull’aquaforte e la puntasecca. Dal 1996, le sue opere appaiono per la prima volta nella National Gallery di Londra, nella collezione d’arte della Bibiliothèque Nationale de la France a Parigi e la collezione grafica di Caixanova in Spagna. Ceschin è considerato uno dei migliori artisti italiani nel campo dell’incisione. L’espressività delle sue figure nonchè il contrasto perfetto tra luce e ombra, danno prova della sua grande padronanza di questa tecnica.
I questi ultimi anni, ha pubblicato importanti opere grafiche grazie alla collaborazione con diversi poeti, tra i quali troviamo Andrea Zanzotto, Mario Luzi, Franco Loi e Mario Rigoni Stern.
Fra le sue corrispondenze vi è quella con Federico Zeri che gli scrive: «…le sue incisioni mi confermano che in Italia, oggi, la grafica è assai superiore alla pittura…» e lo scambio epistolare con Ernst Gombrich che Ceschin incontra a Londra, nella primavera del 2000, e al quale dedicherà l’opera «Omaggio a Gombrich» custodita oggi nella Collezione della Galleria dei ritratti a Londra. Nel 2001 incontra il fotografo francese Henry Cartier–Bresson, a cui fa conoscere il suo lavoro di incisore e gli dedica l’opera «L’attesa».
Nel 1993 entra nel Repertorio degli incisori italiani e dal 1996 alcune sue opere sono pubblicate negli Annuari della Libreria Prandi di Reggio Emilia.
Dal 2002 fa parte della Royal Society of painter-Printmakers di Londra e dal 2016 della Fondazione Taylor di Parigi. Nel 2013 l’Istituto Nazionale per la Grafica a Roma e nel 2014 il Museo Rembrandt di Amsterdam gli dedicano due importanti esposizioni. Nel 2015 espone in Finlandia le 27 incisioni acquisite dalla Collezione Pieraccini, in collaborazione con i Musei Ateneum e Sinebryschoff di Helsinki.
(http://www.livioceschin.it/Home_ita.html)

PRESENTAZIONE (dalla Presentazione del Catalogo della mostra)

È stato detto che alcuni artisti «hanno il demone del paesaggio». Parafrasando quanto affermato di recente per un poeta emiliano, potremmo dire che anche per Livio Ceschin il paesaggio naturale è tutto: «un termine di reazione percettiva e sensibile, un approdo conoscitivo, un confidente fedele, un avversario, un pozzo da cui veder riaffiorare la storia personale, un punto di fuga, una pista di lancio per l’immaginazione e per il sogno» (Galaverni). In ogni caso è proprio lì, al cospetto di un paesaggio, che l’artista cerca e ritrova se stesso e, insieme, il senso e l’intelligenza delle cose, «una possibile consistenza individuale, come se si trovasse davanti a una costellazione da cui ricavare la cifra del proprio destino».
Nella rappresentazione della natura, infatti, con le sue implicazioni etiche si collocano le manifestazioni di una raffinata sensibilità che prova a interpretare le contraddizioni della sempre più precaria convivenza tra l’uomo e l’ambiente, ma anche le radici stesse della nostra umanità quando si capisce che è necessario il recupero dell’essenzialità.
Tanto più ciò vale se i luoghi son quelli delle origini, affettivi, spazi dell’anima che non siano abitati dal rumore o dai colori troppo accesi: virati al bianco e nero della grafica di Livio Ceschin, i silenzi della campagna, della collina, del bosco, del fiume, degli anfratti litorali con qualche relitto abbandonato, o di quelli montani preservati e ghiacciati, permettono alla sua poesia delle immagini di declinarsi in scorci di meditazione.
Una ricerca che dura da lungo tempo (almeno un paio di decenni), l’insistenza affettuosa di uno sguardo discreto e rispettoso, ma intimo e pronto a raccogliere i minimi dettagli e i segnali di una memoria dell’istante, «un continuo desiderio d’intensità percettiva, emotiva, anche intellettuale» che appartiene a tutto il dettato grafico proposto da Ceschin e che arriva allo spettatore come l’offerta di un rifugio prezioso di quiete rispetto alla chiassosa modernità, di un solido punto di riferimento per una specola valutativa non occasionale, e di un valore così legato alla classicità che non patisce più alcun rischio d’effimero.
Non potremo attribuire a queste emozioni visive, a questa devozione alle atmosfere soffuse l’aggettivo di “crepuscolare” pur avvicinandole oggi, con questa mostra nella casa di Cesenatico, al nostro Marino Moretti. Ma emergono alcune sintonie inaspettate che potrebbero fare accostare il dato atmosferico e luministico di queste stampe al registro basico e infantile di versi come: «Il cielo ride un suo riso turchino / benché senta l’inverno ormai vicino; // il bosco scherza con le foglie gialle / benché l’inverno già senta alle spalle, // ciangotta il rio col rispecchiato cielo, / benché senta nell’onda il primo gelo, // e sorto è a piè di un pioppo ossuto e lungo / un fiore strano, un fiore a ombrello: un fungo» (Il fungo). E ancora, in una poesia di un più maturo bilancio: «Oggi ricordo che salii su un tiglio / a dodici anni per vedere il mondo. / L’albero disse: “Ebbene, io ti nascondo, / ma tu poco vedrai, povero figlio”. // E poco vidi. Solo cielo e mare: / cielo non è che cielo, / mare non è che mare, / il mare e il cielo insieme erano il nulla. / Così passò la mia gioia fanciulla / in un’attesa di cielo e di mare» (Il tiglio).
Poi c’è la voce degli ospiti, convocati in apparente occasione dall’artista: «Non so bene cosa ci abbia portati qui» (Cappello). Ci sono Luzi, Zanzotto, Cecchinel, Loi, Cappello, Villalta, Rigoni Stern in realtà scelti con rigore da Ceschin per avervi scorto affinità nel porre le cose in «quell’ordine a cui “sono accline / tutte nature, per diverse sorti, / più al principio loro e men vicine”, e, cioè, a dar risalto, attraverso le forme, a quella luce “penetrante / per l’universo secondo ch’è degno”, quell’origine della luce che si manifesta nel rapporto tra l’artista, le cose e la materia dell’arte» (Loi).
E in virtù di questa intuizione dell’artista, tutti, in queste domestiche stanze, dove forte s’avverte l’incanto del silenzio, sanno entrare in un confidente dialogo, per cui – con Luzi – non possiamo che constatare che «C’è, onnipresente, / colui che raccoglie questo dialogo (si parla di dialogo tra gli esseri della natura) / passa tra gli effimeri che passano / nel vento inesauribile del mondo».
Del resto la poesia – dice ancora Cappello – è quel «posto tanto vuoto che pare ti appartenga», «un modo di essere soli e risonanti nel buio», mentre ogni verso «allunga un’ombra sull’ombra» che sembra quella del padrone di casa.
Solo l’occhio del poeta può rivelare certi spazi nascosti (e «tra poco / tutto mi darai quel che anelavo» – Zanzotto), e il bulino di Ceschin ne porta all’evidenza di stupefacenti. L’uomo non è mai oggetto ritratto, è lo sguardo protagonista e partecipe che, di fronte all’inatteso, non può che commuoversi. (Manuela Ricci)

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