INTRODUZIONE di Cristiano Cavina
L’incontro con Moretti è avvenuto a scuola; subito mi era sembrato uno di quegli autori che nelle antologie ci stanno un po’ come le riserve negli sport di squadra: in panchina, ché per le partite serie ci sono già i titolari.
Non aveva la maglia e il ruolo dei Pirandello, di Verga, di Svevo o di Manzoni; non c’era la sezione dedicata solo alle sue opere e alla sua vita.
Se ne stava da una parte, raggruppato insieme ad altre riserve. Il suo gruppo, stando al testo, indossava la casacca con su scritto “Crepuscolari”. Una via di mezzo tra uno sponsor di quelli che non danno molti soldi e un’etichetta.
Che poi, come scoprii anni dopo, quel crepuscolari in cui tutti prima o poi ci siamo imbattuti alle superiori, non importa di che ordine e grado, fu proprio coniato in riferimento a un suo testo, le Poesie scritte col lapis.
A noi, ragazzi dell’Istituto tecnico, quel crepuscolari suonava semplicemente come secondari. Meno importanti, come le cose che puoi comprare un tanto al chilo.
Ho avuto una fortuna; la prof ne aveva accennato di sfuggita, insieme ad altri due o tre nomi, ma il suo mi era rimasto, perché un amico del paese si chiamava così, e quindi sono andato a vedere. C’era una piccola scheda su di lui nell’antologia, insieme ad altre schede di altre riserve – insomma, molto stringata –, e fu una sorpresa.
Era nato nel 1885. Per un adolescente, il pleistocene. Però era di Cesenatico. In tanti anni di scuola, ecco qualcuno che veniva da un posto che conoscevo. Certo, c’era stato Pascoli, alle medie, ma a parte che non conoscevo nessuno che si chiamasse Pascoli, la sua San Mauro era quasi a Rimini, e Rimini, per noi bambini romagnoli al confine con la Toscana e il bolognese era come dire Samarcanda.
C’era anche una poesia di Moretti, nell’antologia. Così andai a darci un’occhiata, tanto che ero lì, mentre la prof superava i crepuscolari per arrivare ai decadenti – o il contrario, forse. Piove. È mercoledì. Sono a Cesena, / ospite di mia sorella sposa. Non Napoleone, Sant’Elena, Ei fu, Zacinto. No. Cesena. Conoscevo anche quella. Di più. Avevo il poster della squadra appeso in camera. Un’altra piacevole sorpresa. Letteratura da libro di testo sulla città in cui abitava Schachner.
La cosa mi deliziò. Anche la poesia. Mentre Foscolo o D’Annunzio non ci capivo molto senza andare a leggere il malloppo di note a fondo pagina, questa della sorella sposa a Cesena, che una settimana prima gli sembrava ragazza e adesso era incinta, filava via chiara e liscia, senza bisogno di stampelle.
Che tipo, ’sto Moretti di Zezenatico (loro quando parlano parlano così. Un sacco di zeta in più, all’ungherese però, sz).
La cosa finì lì.
Come tutti gli autori dei libri di testo, mi sembravano i resti fossili di un’epoca remota (nato 1885. Pleistocene). Erano tutti una folla indistinta di scheletri di brontosauro con i basettoni folti e i colletti inamidati, appartenuti a un mondo in cui non esistevano le magliette dei gruppi rock o la televisione.
Eppure. Quando anni dopo mi capitò per lavoro di dover leggere qualcosa di lui, scoprii che era sì nato nel 1885, ma era morto nel 1979.
Io avevo già cinque anni. All’epoca passavo l’estate in colonia dalle suore Orsoline, a Igea Marina (quasi Samarcanda), e lui era a scrivere i suoi libri a qualche chilometro da lì. Magari aveva pure la televisione. E una maglietta, chessò, dei Pink Floyd. O di Raoul Casadei.
Ma è più di questo.
Fino al 2003, e io avevo quasi trent’anni, viveva ancora la sua Cunegonda, una tartaruga che gli era stata spedita per posta da Napoli negli anni trenta. Tartaruga che ha conosciuto Palazzeschi, Govoni, Bassani, De Pisis, tantoper dirne alcuni.
Ecco. Non erano poi così lontani, loro e Moretti.
È buffo come esistano di questi strani legami che se ne fregano del tempo e della distanza: una fitta ragnatela impalpabile ma tenace, che ci lega a sconosciuti, a gente che non abbiamo visto e non vedremo mai, alle loro vite. Una ragnatela di storie o di sottotrame, difficile da scorgere, ma che se hai la fortuna di metterti nella giusta inclinazione eccola lì, sottile, fine, però resistente; tutt’intorno.
Nel giugno del 1914, nella sua casa a Cesenatico, ci passò tutto un pomeriggio la Deledda, che trascorreva le sue estati a Cervia (ed è, a mia memoria, l’unica tra tutti i sardi che lascia il mare della sua terra per venire in quello della Romagna). Parlarono di Alfredo Oriani. Oriani è del mio paese, Casola Valsenio. C’è la sua casa museo, qui – non credo Moretti immaginasse che anche la sua lo sarebbe diventata, in quel 1914. Forse nemmeno la Deledda della propria.
Ma c’è altro. La domestica della Deledda a Cervia era del mio paese. Conosco i suoi pronipoti. Ci sono andato a scuola insieme.
Storie come ragnatele. Impalpabili. Ma tenaci. Poetiche, a modo loro. Storie che si intersecano con altre storie.
Mi è bastato aprire L’Andreana per ritrovarle. I nomi, innanzitutto. Mondo, Evardo, l’Andreana, La Mascia, Chilazz: era come stare nel mio paese. Mondo lo abbiamo anche noi, solo che non è il pescivendolo numero uno, ma il fratello Citta il ciabattino, e suona la tuba nella banda. Suonava, è morto ormai. Ma è come se non lo fosse, come capita ai personaggi dei libri.
C’è tutta una terra, in quei nomi.
Mondo, poi, che quando entra in casa, per darsi arie da gran signore – e non da pescivendolo arricchito qual è – saluta con un elegante “Buenos Aires” gli ospiti, invece che con buonasera: siamo cresciuti in mezzo a gente del genere, magari non avevano a che fare con il mare e il pesce, ma con i polli o le castagne, ma erano tutti così; vivevano mistificando e millantando credito, incasinando tutto; magari avevano incrociato da lontano una celebrità all’autogrill, vent’anni prima e al paese ne parlano ancora come fossero stati migliori amici.
Aveva questa roba, Moretti, che non so se sia stato il primo a farlo – non sono stato un grande studente e non sono un critico – ma gli riusciva questa cosa per cui non è necessario trasformare ogni vicenda in una tragedia greca per darle dignità di racconto. Ai casini della vita, alle delusioni, ai rovesci della fortuna, a ’sti figli che ti fai un mazzo così e manco ti badano di striscio perché vanno per i fatti loro, alla rovina ci si può navigare con l’ironia. Fa venire in mente quella frase di Flaiano: “La situazione è grave, ma non seria.”
E in questo Moretti è davvero romagnolo: l’incapacità di incupirsi del tutto di fronte al disastro; alla triste, due risate in faccia, non solo lacrime.
E poi c’è l’Andreana. Una donna che la vita le rifila fregature una dietro l’altra ma che non si riesce a buttare giù; in un modo o nell’altro, resiste alla tempesta. Da sola. Senza principi azzurri, che in certi posti i principi azzurri se guardi bene sono marroni e se ti cercano non è per salvarti con un bacio, ma per rifilarti una fregatura. E comunque sanno di pesce.
Le donne di Moretti sono fantastiche. In questo è stato un fenomeno, mi sa. Molto avanti. I personaggi femminili, anche quelli cattivi, hanno diecimila volte più carattere dei maschi.
Tengono su la baracca. Sarà che Moretti è sempre stato con la sua mamma e le sorelle (“Piove. È mercoledì. Sono a Cesena, ospite di mia sorella sposa” ecc ecc), sarà che la Romagna è una terra fieramente matriarcale, ma i suoi personaggi femminili sono immensi, si divorano le scene che gli vuoi bene anche quando ti fanno arrabbiare.
Son proprio contento che vengano ripubblicate le opere di Moretti; la dimostrazione che la ragnatela è ancora lì, delicata ma tenace; in un modo o nell’altro, non si riesce a tirare via. Come ritrovarla perché il nuovo giorno ci ha lasciato la brina sopra. (Pessima poesia. Dovevo metterci un vermicello da qualche parte per renderla crepuscolare.)
Buona lettura.
E Buenos Aires a tutti!
Marino Moretti, L’Andreana, introduzione di Cristiano Cavina, nota al testo di Manuela Ricci, Milano/Firenze, Bompiani/Giunti, 2021 (Classici Contemporanei Bompiani); ISBN 978-88-301–0435-8. 13 euro