LA VEDOVA FIORAVANTI

da | Ott 18, 2022

CON PAROLE POVERAZZE di Matteo Cavezzali

C’è un filo sottile che lega, come la maglia di una rete da pesca, i poeti della Romagna. Inizia con Giovanni Pascoli nelle campagne di San Mauro, scende al mare di Cesenatico con Marino Moretti, per poi risalire sui colli di Santarcangelo con Tonino Guerra, Raffaello Baldini e Nino Pedretti. È una poesia (e una prosa poetica) immediata, non si nasconde dietro gli artifici di una lingua fintamente alta o pirotecnica, ma unisce l’antica sapienza popolare di contadini e pescatori, con l’altezza del contenuto. Sono poesie che possono capire anche i bambini o i braccianti analfabeti, perché la bellezza è comprensibile a tutti, come il riflesso della luce dell’alba sulle onde, il rumore della rete che viene issata piena del tesoro che il mare le ha concesso di trattenere, o il movimento dei girasoli che la sera si chinano in riposo. Raccontano storie malinconiche e gioiose al tempo stesso.
Io ho risalito questa corrente al contrario, partendo da Raffaello Baldini e ritornando poi alla fonte. Le poesie di Baldini sono così immediate e divertenti che quando l’attore Ivano Marescotti le recitò a una sagra di paese una signora gli disse “che bellissime barzellette che hai letto”: mi pare un bellissimo lapsus. Perché la vera poesia non si presenta mai come tale, è sempre nascosta in mezzo alle cose della vita. Quell’arte della leggerezza inizia proprio con Moretti. Anche a lui era capitato un episodio simile. Una signora per fargli un complimento gli disse “come scrive bene lei, si vede che nessuno gliel’ha insegnato”. La scrittura di Moretti è spontanea, o meglio appare spontanea, ma viene da un attento studio delle parole giuste, le “parole fatte in casa”, che si contrappongono a quelle costruite nelle roboanti officine di Gabriele D’Annunzio e dei suoi epigoni, che oggi sentono molto di più – proprio per questa loro artificiosità – il peso del tempo. Quando erano di moda i futuristi Moretti si definiva “passatista”, insomma era sempre, ostinatamente, fuori dal suo tempo e dalle mode. “Io scrivo a casa mia e scrivo come mi pare”, diceva.
Moretti diventa noto con una raccolta dal titolo emblematico
Poesie scritte col lapis, scritte a matita, come se potessero essere cancellate da un momento all’altro, e conclude la carriera con il Diario senza le date, anche in questo caso, come a sottolineare che tutto quello che ha scritto e che ha vissuto è una sorta di sospensione. Il titolo che preferisco però è Le poverazze, che suona come una ironica risposta agli eleganti Ossi di seppia di Montale, bianchi e candidi. Le poverazze sono invece le vongole, che in romagnolo si chiamano appunto puvrass, poveracce, perché i pescatori una volta venduto tutto il pesce tenevano per loro solo quello che era rimasto nel fondo delle reti, le vongole. “Io non sono come gli altri e mi dispiace”, recita l’incipit di una sua poesia. Moretti infatti è una penna fuori dal coro, non si presta alla televisione, rilascia rarissime interviste, vive appartato, in solitudine. Scrive su un tavolino che si affaccia sul canale di Cesenatico, sempre lo stesso, da cui vede cambiare i tempi, e osserva in silenzio i pescatori lasciare mano a mano spazio sulla banchina ai turisti, vede erigere il piccolo grattacielo del lungomare, ma vede anche che le persone, alla fine dei conti, sono rimaste le stesse. La vedova Fioravanti è considerato dalla critica il romanzo della sua maturità, il suo capolavoro, uscito nel 1940 riscuote grande successo e diventerà anche un film RAI negli anni settanta. Ci parla di un mondo che non esiste più, in cui i valori morali valgono più della felicità. La protagonista è Mitelda (storpiatura dialettale di Matilde), vedova del macellaio e corteggiata dal pescivendolo, che ha un rapporto complesso con il figlio diventato sacerdote. “Di bella statura, ben proporzionata ma rassegnata a ingrassare, la ‘signora’ Mitelda aveva forse la testa un po’ piccola sotto capelli grossi e duri, talvolta dolcemente allentati, talvolta costretti in trecce e difficili nodi.” Mitelda però è più avanti dei suoi tempi, “chissà perché la vedovanza le metteva così una voglia di vivere”.
Dei romanzi di Moretti mi è sempre piaciuto il suo modo di inserire parole dialettali in mezzo all’italiano. Ci sono
azdore e i bacherozzi, il vino che si beve è la cagnina della Pataccona, il calendario si consulta sul Lunêri di Smémbar, qui c’è l’arziprit (l’italiano arciprete non renderebbe giustizia al personaggio) e il macellaio non indossa il grembiule, ma una parananza insanguinata. Amo Moretti perché ci permette di sbirciare dalle veneziane della sua finestra un piccolo mondo antico, che nessuno come lui ha saputo raccontare. La Romagna dei pescatori, oggi soppiantata da quella degli albergatori.
Muore vecchio, dopo quasi un secolo di vita. Nelle sue poesie e nei suoi romanzi parlò spesso di morte, eppure non si decideva mai a morire, e raggiungere il cimitero di Cesenatico da cui si sente lo sciabordio delle onde, che “i morti sono felici se il mare li protegge”. Era come se aspettasse di capire come si fa a morire, che tanti ci danno lezioni su come si dovrebbe vivere ma nessuno su come si muore.

Sempre più grande lo stupore
nella vita quotidiana
quando un’eco di campagna
forse c’insegnerà come si muore.

Marino Moretti, La vedova Fioravanti, introduzione di Matteo Cavezzali, Milano/Firenze, Bompiani/Giunti, 2022 (Classici Contemporanei Bompiani); ISBN 978-88-301-0436-5. 12 euro

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